I reati tributari come campo di precisazione dei principi del diritto penale dell’economia. Alcune recenti pronunce su dichiarazioni infedeli, omessi versamenti di imposte e i loro rapporti anche con le procedure concorsuali.

I reati tributari da sempre suscitano l’attenzione di Corti e Tribunali in virtù della solerzia con cui la magistratura cerca di porre argine all’evasione fiscale che affligge il nostro Paese.

Tale impegno spesso sconfina in iniziative che vulnerano i principi di diritto e – pertanto – le sentenze in materia si rivelano occasioni di approfondimento di speciale interesse anche per il cuore del diritto penale.

Di recente, l’opportunità è stata offerta non dai più noti reati dichiarativi (artt. 2-4 D. Lgs. 74/2000), bensì da casi di omesso versamento delle imposte (dichiarate), omessa dichiarazione e finanche sottrazione fraudolenta al pagamento.

La Cassazione è stata chiara nel ribadire l’attenzione ai principi – anche di rango costituzionale – a tutela del cittadino: tassatività, legalità, ma anche interpretazione sistematica delle norme.

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La prima sentenza è stata emessa in un caso in cui, attraverso la contestazione della recidiva reiterata (ex art. 99, co. 4, cod. pen.) e il ricorso all’allungamento dei termini di prescrizione previsto per i reati tributari (art. 17, co. 1bis, D. Lgs. 74/2000), si tentava di colpire l’amministratore di una società malgrado il decorso di un lungo periodo dai fatti[1].

In particolare, l’imprenditore era imputato di omesso versamento dell’IVA (art. 10 ter D.Lgs. 74/2000) del 2010 e sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11, stesso decreto) per aver affittato l’azienda ad altra società, di proprietà dei famigliari e con medesima sede (circostanze che deponevano per la natura fittizia e strumentale del contratto). Per sostenere la sussistenza della recidiva reiterata, venivano valorizzati – in chiave accusatoria – due decreti penali di condanna, per modesti illeciti (pene condonate) del 2002, di pari data.

Malgrado l’esponente della Società spendesse anche validi argomenti (riguardanti il prezzo dell’affitto e la presenza di attivo in capo alla stessa) per smentire totalmente le accuse, l’oneroso approfondimento di tali aspetti (e dunque il vaglio delle ipotesi accusatorie) si è scontrato contro la ritenuta prescrizione degli illeciti[2], a fronte dell’insussistenza dei presupposti attraverso i quali la Procura (e i Giudici di merito al suo seguito) avevano superato l’estinzione del reato.

Nello specifico, nuovamente nel solco dei principi di tassatività e interpretazione letterale delle disposizioni penali, la Cassazione ha precisato che:

a) l’art. 17, co. 1 bis, D. Lgs. 74/2000 fornisce un elenco dei reati per i quali determina l’aumento del termine di prescrizione invocato dalla Procura e tra questi risultano esclusi omesso versamento di IVA e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (l’esclusione, in particolare, è dovuta all’attenzione alla tassatività della norma penale)[3];

b) la recidiva reiterata, la quale consentirebbe di provocare – a propria volta – l’aumento del tempo necessario a determinare l’estinzione del reato, ricorre solo se all’epoca in cui l’imputato avrebbe commesso il reato di cui è accusato, fosse già nelle condizioni di essere considerato recidivo.

Tale condizione viene descritta come quella di colui che «in ordine a un reato precedentemente realizzato, avrebbe già potuto subire l'applicazione di un aumento di pena per la recidiva, in quanto in quel momento già irrevocabilmente condannato per un ancor più risalente delitto»[4]. Diversamente da tale principio, l’imputato – sebbene fossero duplici e affini (omesso versamento di ritenute previdenziali: art. 2, L. 683/1983) i reati accertati con i decreti penali del 2008, non era mai stato “recidivo” essendo intervenuto il “secondo” di tali decreti nella stessa data del primo.

Da ultimo, ancora con riguardo alla rigida (e sistematica) interpretazione del diritto penale, la Corte di legittimità approfondisce che la recidiva reiterata di cui all’art. 99, co. 4, cod. pen. riveste il ruolo di aggravante a effetto speciale – e in quanto tale suscettibile di estendere il termine di prescrizione ai sensi dell’art. 157, co. 2, cod. pen. – solo in ragione della specialità dell’aumento concretamente applicabile nel caso di specie. Viceversa, nel caso dell’imprenditore in esame, l’aumento di pena sarebbe stato limitato, ai sensi dell’art. 99, co. 6, cod. pen.[5], a qualche mese, perciò inferiore all’aumento di pena di “un terzo” provocato dalle aggravanti a effetto comune[6].

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Un secondo intervento della Cassazione ha escluso si possa parlare di omessa dichiarazione (art. 5 D. Lgs. n. 74/2000), laddove questa sia stata presentata con alcuni campi “in bianco”, non valorizzati dunque come avrebbero dovuto. In tali ipotesi, sottolinea la Cassazione, dopo che i giudici di merito avevano invece seguito l’opzione deteriore, si potrà esclusivamente contestare una dichiarazione infedele (e comunque solo di fronte all’effettiva integrazione di tutti gli elementi costitutivi previsti dalla norma di riferimento: art. 4 D. Lgs. n. 74/2000)[7].

In questo caso, i principi fondamentali che illuminano la decisione non possono che essere quelli di tassatività e determinatezza, da un lato, proporzionalità e offensività, dall’altro: insieme suggeriscono al Giudice di optare per la fattispecie che meglio si attaglia a una condotta che non presenta la contrapposizione dell’autore nei confronti dell’ordinamento (tributario) nella stessa maniera in cui la si rinverrebbe nel caso di una mancata presentazione tout court della dichiarazione fiscale considerata.

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L’ultima decisione che passiamo rapidamente in rassegna ha deciso su un sequestro disposto dalla Procura sui beni aziendali, ancora per fatti di omesso versamento di IVA la recentissima sentenza che – seppur sfavorevolmente per l’impresa coinvolta – si è occupata della relazione tra il diritto penale tributario e le procedure concorsuali[8].

Nello specifico, la pronuncia è intervenuta nell’ambito di un dibattito giurisprudenziale sulla rilevanza dell’ammissione al concordato preventivo per l’esclusione della responsabilità penale in caso di omesso versamento di IVA commesso in seguito alla domanda di concordato. La posizione assunta dalla Cassazione recepisce l’orientamento maggioritario secondo il quale l’ammissione al concordato può acquisire il ruolo di “ordine dell’autorità” rilevante, ai sensi dell’art. 51 cod. pen., quale scriminante solo se il Giudice fallimentare abbia anche disposto (eventualmente su richiesta di parte) di non pagare il debito tributario.

Invero la Corte, nei suoi ripetuti interventi sul tema, ha prevalentemente ritenuto che l’art. 168, co. 1, L. fall. – che impone la retroazione dell’ammissione al concordato alla data della domanda[9] – non inibisca di per sé i pagamenti dei debiti (anche in base a una lettura combinata con gli artt. 161, co. 7, 167 e 189 L. Fall.): tanto meno i debiti fiscali maturati tra la data della domanda e l’ammissione, fatto salvo il caso in cui – appunto – la sezione fallimentare li abbia espressamente coinvolti. Il ragionamento della Corte muove, in questo caso, oltre che da una rigida interpretazione letterale delle norme sulla procedura concorsuale, da un inquadramento sistematico delle disposizioni sul prelievo tributario. Si tratta di una lettura della disciplina, insomma, che dimostra la propria consapevolezza circa il panorama dell’ordinamento nel suo complesso. Invero, si attribuisce alla materia fiscale, da un lato, e, dall’altro, al suo presidio penalistico per il tramite dei sequestri preventivi, una prevalenza sulla par condicio creditorum garantita dalle procedure concorsuali. L’esito, in particolare, viene sostenuto per escludere che l’impresa possa approfittare della domanda di concordare «quasi … come una condizione meramente potestativa di punibilità»[10], valorizzando la sanzione penale che colpisce (diversamente dall’inadempimento di altre obbligazioni) il mancato versamento di IVA e il privilegio legale che assiste tali debiti (estromettendoli dunque dalla par condicio), ai sensi dell’art. 62 D.P.R. 633/1972.

La stessa peculiarità dei debiti fiscali è stata ribadita nella recente giurisprudenza della Cassazione penale, per esempio quando è stato affermato che il pagamento dei medesimi può intervenire persino in costanza di sequestro cautelare disposto ai sensi del D. Lgs. 231/2001[11] (sequestro che, pertanto, solo per la quota corrispondente a tali importi verrà revocato).

Pertanto, con le parole della Corte, «spetta all'imprenditore in crisi – e, aggiungiamo, ai suoi consulenti – che sa di avere un debito fiscale che verrà a scadenza certa, ponderare la migliore soluzione della crisi di impresa e valutare in tale ambito anche le conseguenze penali»[12].

[1] Cfr. Cass. pen., sez. 3, 24 gennaio 2022 (ud. 14 dicembre 2021), n. 2519, in dejure.it.

[2] Come noto, la dichiarazione di prescrizione prevale qualora siano necessari defatiganti accertamenti per raggiungere un proscioglimento nel merito (altrimenti da privilegiare): art. 129, co. 2, cod. proc. pen.

[3] In particolare, la Corte ha rilevato come l’elenco normativo sia redatto tramite il richiamo dei numeri degli articoli alle estremità del gruppo che si è voluto considerare («da 2 a 10»), mentre i reati contestati nel caso di specie si ponevano immediatamente fuori da tale excursus, senza che i meri numerali latini (10-bis, 10-ter) possano consentire la riconduzione in una sorta di generico “articolo 10”.

[4] Così, testualmente, Cass. pen., n. 2519/2021, cit., § 4.1. La Corte prosegue, inoltre, precisando che non sarebbe neppure necessario (come invece sostenuto da un orientamento minoritario) una precedente espressa dichiarazione della “recidiva”, essendo sufficiente che sussistesse la condizione per dichiararla. Il punto, invero, era già stato chiarito dalle Sezioni Unite, con la pronuncia del 27 maggio 2010, n. 35738 e non è stato messo in discussione.

[5] Il quale prevede che, anche in caso di recidiva reiterata, l’aumento di pena «non può superare il cumulo delle pene … d[e]lle condanne precedenti».

[6] Cfr. artt. 63, co. 3, e 64, co. 1, cod. pen.

[7] Cfr. Cass. pen., sez. 3, 14 febbraio 2022, n. 5141. Un primo commento si può leggere per esempio in Italia Oggi, 28 marzo 2022, pag. 10, a cura di N. Pietrantoni.

[8] Cfr. Cass. pen., sez. 3, 18 marzo 2022 (ud. 21 dicembre 2021), n. 9248, ivi.

[9] Circostanza valorizzata, conducendo a una decisione diametralmente opposta a quella assunta nella pronuncia commentata, da Cass. pen., sez. 3, 2 aprile 2019, n. 36320.

[10] Affermazione, forse, sopra le righe, proposta nel § 1.1. della sentenza in commento.

[11] Cass. pen., sez. 6, 11 aprile 2022, n. 13936.

[12] Cass. pen., sez. 3, n. 9248/2022, § 1.1.

 

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