Reati ambientali: indagini contro società industriali. Una riflessione a partire da un recente caso concreto.

Negli ultimi anni si sono susseguite, non senza rilievo mediatico, sentenze di condanna nei confronti di diverse realtà industriali coinvolte in rilevanti episodi di c.d. “inquinamento ambientale”.

D’altronde, gli attori economici hanno concentrato sempre maggiore attenzione sulla sostenibilità (anche e prima di tutto ambientale), trascinando con sé iniziative eterogenee, di sicuro impatto anche sul fronte normativo e giudiziario.

Non sono viceversa quasi mai rese note (anche nell’interesse dei soggetti coinvolti) le pur numerose pronunce assolutorie (art. 530 c.p.p.) o quelle – anticipate rispetto alle prime – di archiviazione delle indagini (art. 409 c.p.p.) per fatti analoghi.

Di recente, per esempio, si è chiusa con l’archiviazione un’indagine per reati ambientali che si era protratta per lungo tempo a danno di una Società manifatturiera.

Nel caso di specie, la difesa, proprio per la durata delle indagini – e la reiterata pratica della richiesta di proroghe da parte della Procura – aveva richiesto, nell’interesse della cliente, il rigetto della proroga delle indagini (ex art. 406, co. 3, c.p.p.).

In particolare, la Società aveva potuto dimostrare la conformità della propria condotta alla normativa ambientale e aveva pertanto interesse a una rapida chiusura del procedimento, che si aspettava favorevole.

In effetti, a seguito della positiva decisione del Giudice per le Indagini Preliminari (che aveva respinto le istanze di proroga), al PM non è rimasto altro da fare che chiedere l’archiviazione (art. 408 c.p.p.) proprio citando dettagliatamente tutti i contributi che la difesa aveva prodotto nel corso delle indagini, unitamente ai coerenti accertamenti delle pubbliche autorità.

Il caso si è così risolto favorevolmente per l’impresa, malgrado la durata delle indagini palesasse l’intenzione della magistratura di individuare un punto debole nell’organizzazione della Società, soprattutto a fronte delle numerose denunce di alcuni cittadini che ritenevano, in modo apodittico, “inquinante” lo stabilimento insediato nei pressi del loro centro abitato.

L’ostilità di questa (minoritaria ma insistente) porzione della popolazione aveva, a propria volta, potuto manifestarsi sia nel corso delle indagini (con numerosi depositi di consulenze tecniche e documentazione di vario genere) sia all’esito del procedimento; i medesimi si sono opposti alla richiesta di archiviazione, iniziativa che ha reso necessario argomentare, tramite articolate memorie e udienze di discussione, la correttezza della decisione della Procura, giungendo all’archiviazione del procedimento.

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Pertanto, sono stati finalmente smentiti i reati inizialmente contestati, dall’inquinamento (ex art. 452-bis c.p., da cui discendeva la responsabilità amministrativa dell’ente, ai sensi dell’art. 24-undecies, D. Lgs. 231/2001) al getto di cose (ex art. 674 c.p.), ipotizzato in relazione alle emissioni di fumi molesti, sino alle lesioni colpose (art. 590 c.p.) asseritamente derivanti dalle emissioni nocive dello stabilimento.

Ciascuno di tali reati richiede, come noto, appositi presupposti - elementi costitutivi - che è stato possibile escludere nel caso di specie. In  particolare, fra questi, merita una citazione l’ancora recente fattispecie di inquinamento (introdotta nel 2015).

Precisamente, «il reato in questione è senza alcun dubbio un reato di danno, causalmente orientato»[1]. E tale causalità deve orientare la richiesta violazione di legge cioè l’abusività della condotta (altrettanto prevista dalla norma).

Come noto, la causalità anzidetta è orientata all’evento inquinante, il quale è individuato dalla normativa con le locuzioni, di per sé non precise, “compromissione” e “deterioramento”, che la giurisprudenza ha chiarito. Si deve trattare di «un’alterazione, significativa e misurabile, della originaria consistenza della matrice ambientale o dell'ecosistema, caratterizzata, nel caso della “compromissione”, da una condizione di squilibrio funzionale, incidente sui processi naturali correlati alla specificità della matrice o dell'ecosistema medesimi e, nel caso del “deterioramento”, da una condizione di squilibrio “strutturale”, connesso al decadimento dello stato o della qualità degli stessi»[2].

Nella vicenda in esame, tali presupposti mancavano, non ricorreva la prova di emissioni moleste (mai appurate dagli organi accertatori, ma solo dai denuncianti), mentre con riferimento alle lesioni colpose, la pronuncia ha recisamente ribadito che mancasse la stessa «condotta foriera delle conseguenze [nocive], perché … non sono state riscontrate emissioni in atmosfera … tali da superare le soglie consentite»[3].

L’ordinanza di archiviazione ha escluso, altresì, qualsiasi sorta di nesso di causa tra la conduzione dello stabilimento industriale e le lesioni lamentate da alcune persone offese, le quali – evidentemente – trovavano la propria eziologia in circostanze estranee a quelle indagate a carico dell’impresa. Come noto, la causalità è sempre un elemento determinante e tra quelli principalmente discussi nei processi penali per lesioni colpose e per tutti i reati, anche gravi, colposi d’evento, come dimostra l’imponente casistica in tema di errori medici e di infortuni sul lavoro o (soprattutto) nel caso di malattie professionali.

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In questo caso, come spesso capita di vedere, si sono rivelati importanti due fattori:

  • da un lato, le solerti iniziative difensive e la qualità dei contributi scientifici da contrapporre alla c.d. junk science che – purtroppo – talvolta fa anche ingresso nei processi penali;
  • dall’altro, la qualità dei presidi disposti ex ante dall’impresa (le adeguate due diligence anche penali oltre che tecnico ambientali, le procedure e modelli organizzativi, le relazioni virtuose con gli enti pubblici), attraverso i quali è stato possibile rappresentarne un ruolo del tutto differente da quello proposto dai denuncianti.

Tali elementi hanno consentito di raggiungere una definizione favorevole, in via anticipata rispetto al coinvolgimento nel più complesso giudizio dibattimentale, con ricadute positive anche per la reputazione della Società la quale non è stata neppure destinataria di un avviso di conclusione delle indagini preliminari (art. 415-bis c.p.p.), né tanto meno di una richiesta di rinvio a giudizio (art. 416 c.p.p.): eventi solitamente connessi alla diffusione di notizie sulle indagini che, spesso, finiscono per offendere il buon nome degli interessati prima dei doverosi approfondimenti.

[1] Cfr. Cass. pen., sez. 3, 31 gennaio 2017, n. 15865, in Ced Cass., rv. 269491-1, p. 6. Conf. Cass. pen., sez. 3, 6 luglio 2017, n. 52436, ivi, rv. 272842, p. 6.

[2] Cfr. Cass. pen., sez. 3, 21 settembre 2016, n. 46170, in Ced Cass., rv. 268059-1, pp. 6-7. Conf. (espressamente) Cass. pen., sez. 3, 31 gennaio 2017, n. 15865, in Ced Cass., rv. 269491-1, p. 5.

[3] Uff. GIP Parma, 3 giugno 2021, pp. 56 ss.

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